Le sfide del digitale su lavoro e territori
di Gioacchino Garofoli
Professore Ordinario di Politica Economica all’Università dell’Insubria e Alumno ISTAO 1970-1971
Sono d’accordo con quanto ha scritto Bruno Lamborghini (Dal Covid 19 una sfida per ridisegnare il lavoro) sul Blog dell’Istao.
Innanzitutto il livello di skillmatching nelle professioni digitali e informatiche è molto elevato con una elevata differenza tra domanda di lavoro e offerta di lavoro in Italia, specie per le qualifiche più elevate (laureati con LM) come una ricerca nell’ambito del Programma Interreg sta mettendo in evidenza per l’area transfrontaliera tra Lombardia e Svizzera. Il problema dell’insufficienza di laureati in ingegneria, specie in ingegneria elettronica, era già stato evidenziato nel rapporto ANIE del 2013 che rilevava una difficoltà di reclutamento di ingegneri elettrici ed elettromeccanici per il 58% delle imprese e di ingegneri elettronici per il 33,3% delle imprese italiane. Va ancora sottolineato che i laureati nelle imprese del settore rappresentano ormai oltre il 25% degli occupati totali nel settore.
In secondo luogo Alain Dehaze, Ceo di Adecco, ha recentemente previsto una richiesta compresa tra 210.000 e 267.000 lavoratori digitali in un anno in Italia. La sola Adecco ha formato, in questo anno, 17.000 lavoratori digitali in somministrazione. Se si pensa al basso numero di corsi ITS e, soprattutto al basso numero di corsisti e all’altrettanto basso numero di corsi universitari professionalizzanti, si può comprendere come siano penalizzate le imprese italiane. Ciò sottolinea anche come, al contempo, sia necessario organizzare un grande programma di investimento in formazione che non riguarda esclusivamente l’operatore pubblico ma che richiede il coinvolgimento operativo e gestionale di un’ampia comunità di attori (pubblici e privati) e che sia anche fortemente organizzato dal punto di vista territoriale.
Ciò nonostante le argomentazioni di Bruno Lamborghini mi hanno ridestato alcuni dubbi su alcune questioni complementari e collegate al digitale, ma sulle quali poco si riflette.
Innanzitutto, vedo da tempo un flusso crescente di “lavori poveri” legati direttamente (i lavori dei call center, i lavori di back office di caricamento dati e di tipo amministrativo) o indirettamente (consegna dei prodotti acquistati on line, rider per consegne a domicilio) alle tecnologie digitali, utilizzate da grandi piattaforme e imprese che si stanno ingigantendo e che sono state esaltate in questa fase di diffusione del coronavirus. Le diseguaglianze sociali e le diverse opportunità di lavoro per i giovani si basano, in gran parte, su questo crescente divide che propone scenari imbarazzanti per il futuro in assenza di adeguata regolazione e di un intervento pubblico che spinga verso un diverso utilizzo delle opportunità tecnologiche.
Esiste, in altri termini, una crescente asimmetria di informazioni e di potere economico tra domanda e offerta di lavoro, ma anche tra domanda e offerta di servizi telematici. Chi difende il lavoratore a distanza (con più difficoltà ad incontrarsi, ad apprendere e ad organizzarsi) e chi difende il consumatore? Servono dunque operatori di interfaccia (o istituzioni intermedie), spesso piattaforme condivise e open innovation che favoriscano l’accesso libero e che facciano da filtro tra le opportunità tecnologiche e il posizionamento del singolo lavoratore/consumatore. Esistono brillanti iniziative di associazioni volontarie (di professionisti e del Terzo settore) che lavorano sul terreno educativo e formativo (specie dei giovanissimi e delle scuole, ma anche degli anziani) per l’estensione dell’uso e delle conoscenze e competenze necessarie per il digitale. Ciò nonostante è necessario che operatori sociali intervengano non solo per le funzioni educative e formative ma anche per il controllo sul potere di posizioni dominanti. Non va, infatti, dimenticato che i cittadini consumatori regalano i loro dati alle Big Tech multinazionali che poi ce li rivendono attraverso i loro servizi. In questa funzione educatrice e di interfaccia potrebbero essere particolarmente utili imprese aperte all’innovazione e all’interazione sociale ma anche socialmente responsabili nell’uso del digitale, nel senso che investono in ricerca e formazione, che promuovono le capacità professionali e culturali dei loro dipendenti e che operano nella riduzione dello iato esistente tra scuola e lavoro oltre che tra ricerca e industria.
Si sente dire spesso che nel digitale non esiste la periferia (e spesso viene citata una dichiarazione in tal senso di Franco Tatò) e sappiamo che nei mesi estivi molte aree interne e relativamente periferiche sono state riabitate e vissute incrociando lavoro e vita su quei territori, grazie al lavoro a distanza. La percezione sullo sviluppo di aree relativamente periferiche sta diventando, quindi, un poco più ottimistica e questo potrebbe dar luogo ad un ribilanciamento delle grandi differenze che negli ultimi decenni sono state create tra città metropolitane e le aree esterne. Ma come si organizza una comunità territoriale di fronte a queste sfide ed opportunità? Soltanto rafforzando gli investimenti nell’accessibilità alle reti – al 5G – (che sono ovviamente necessari ma non sufficienti) e creando piccole piattaforme di co-working?
La questione del digitale non si pone soltanto in termini di investimenti tecnologici (in una visione deterministica dell’economia e della società) ma è anche connessa ad una diffusione democratica delle conoscenze e delle competenze digitali per favorire l’accesso agli strumenti delle nuove tecnologie (formazione continua del cittadino e del lavoratore), ma anche in termini di una attenta difesa degli operatori più deboli e di controllo da parte dell’autorità pubblica (specie a livello europeo) non solo rispetto alla concentrazione di potere economico in grandi oligopoli ma anche alla continua emersione di nuovi rentier che funzionano esclusivamente da interfaccia tra i grandi venditori di servizi e il consumatore. Si pone, in altri termini, una questione rilevante di “etica” del progettista delle applicazioni che potrebbe essere eccessivamente business oriented (si pensi all’eccessiva enfasi retorica sulle App e sulle Start up) e non community oriented. Questo è spesso sperimentato dai cittadini, specie se anziani, anche per l’accesso ai servizi pubblici perché la gran parte dei software predisposti non sono assolutamente user friendly. Quando questo avviene per i servizi pubblici, come sperimentato durante il lockdown, la questione diventa particolarmente grave e richiede urgentemente una soluzione.
Vengo all’ultima questione. La gran parte delle nuove tecnologie trasferisce la gran parte del lavoro (non pagato) per l’utilizzo dei servizi a distanza sugli utilizzatori/consumatori che ovviamente devono pagare il servizio (anche quello di intermediazione) a favore dei grandi venditori a distanza di beni e servizi. E la chiamano modernità …
Credo che una più ampia discussione su queste tematiche economiche e sociali sia necessaria per una consapevolezza diffusa tra i cittadini sulle questioni in gioco sul rafforzamento della digitalizzazione e sugli investimenti necessari. Come si sa, questo tema riveste un ruolo importante anche nell’applicazione del Recovery Program/NGEU. Il Piano di ripresa economica rappresenta una grande occasione, ma avrà successo se garantirà non solo nuovo lavoro ma anche lavori stabili (perché utili) e “buoni”. La qualità della vita è fortemente connessa alla qualità del lavoro, oltre che alla soddisfazione dei bisogni essenziali (educazione e cura, innanzitutto) dei cittadini.