Pubblicità sostenibile: etica ed efficacia della comunicazione pubblicitaria

di Giacomo Fratini

Allievo ISTAO

L’aggravarsi della situazione climatica su scala mondiale ha giustamente catalizzato l’attenzione dell’opinione pubblica e delle imprese stesse. Se però da un lato si sta prendendo coscienza della necessità di contrastare l’inquinamento ambientale dall’altro si continuano a trascurare le cause e gli effetti di un altro tipo di inquinamento, più subdolo e difficilmente misurabile ma altrettanto nocivo.

Un inquinamento mentale

Mai come ora i consumatori sono vittime di un assordante bombardamento mediatico commerciale: dalla cartellonistica alla radio, dai social alla televisione. Il fenomeno sta avendo ricadute ancora sottovalutate e dovute non solo alla forma e alla pervasività della sua presenza ma altresì legate ai contenuti veicolati. Decine di autori di fama internazionale, tra cui sociologi, economisti e psicologi, hanno evidenziato i potenziali effetti collaterali di questo inquinamento pubblicitario. Ne “Lo specchio distorto” Richard Pollay compie un’ambiziosa rassegna delle conclusioni di questi autori. Da essa emerge che l’advertising nel suo complesso palesa un intento manipolatorio: facendo leva sull’insoddisfazione del pubblico esso induce a un consumo spasmodico, esaltato come unica via possibile per la ricerca del senso più profondo della quotidianità. In altre parole la pubblicità alimenterebbe l’adesione a uno stile di vita consumistico e materialistico, illudendo che la soddisfazione assoluta non possa prescindere dall’acquisto, dal possesso e dal consumo. Ovviamente questo feticismo per le merci implica spesso il disinteresse per tutto il resto: la cultura, l’approfondimento, le arti, le religioni e persino la creazione di genuine relazioni interpersonali, elementi essenziali per un durevole benessere psicologico, tendono a essere trascurati. Il risultato non può che essere una società fragile e disorientata, affaccendata a seppellire l’insoddisfazione nell’esclusivo godimento momentaneo.

La pubblicità deve spingere al consumo, non al consumismo

Lo scenario descritto è evidentemente frutto dell’azione combinata di numerosi fattori. È però altrettanto chiaro che la comunicazione commerciale si è ritagliata in questo complesso sistema di concause un ruolo da protagonista. Tuttavia accusare la pubblicità in quanto tale è limitante e soprattutto non è del tutto corretto. Nonostante i preconcetti diffusi, advertising non è sempre sinonimo di consumismo così come industria non è sempre sinonimo di inquinamento ambientale. In entrambi i casi esistono modelli sostenibili che consentirebbero di scardinare questi binomi.

Le legittime critiche mosse nei confronti della pressione commerciale sono giustificate dalla presenza di un determinato paradigma pubblicitario, particolarmente diffuso ed evidentemente mendace. In un campione di centinaia di spot televisivi italiani andati in onda tra il 2018 e il 2020 si è riscontrata la presenza di questo paradigma dominante nell’87% dei casi. Si tratta del così detto paradigma ascendente, un modello pubblicitario che tende ad associare i benefici di un prodotto ai bisogni più elevati dell’uomo, a prescindere dalle reali funzionalità per le quali il prodotto è stato progettato e realizzato. Legando la stima e l’autostima, l’amore erotico e l’affetto, l’apprezzamento sociale e l’autorealizzazione all’acquisto di beni e servizi d’uso quotidiano, questo tipo di advertising mira a consolidare la convinzione che il consumo sia sufficiente per raggiungere l’assoluta soddisfazione, tutto il resto è secondario.

Dall’etica all’efficacia

L’inganno della tensione ascendente potrebbe essere fortemente contenuto da un’accresciuta consapevolezza dei consumatori. Come già accennato le responsabilità dell’attuale inconsapevolezza, cognitiva ed emotiva, di una fetta importante della popolazione vanno rintracciate nel più ampio sistema culturale. Resta però il fatto che la comunicazione ascendente approfitta di un pubblico particolarmente suscettibile andando ad alimentare le sue fragilità. Questo tipo di spot dimostra allora di essere una vera e propria esternalità negativa, non necessaria per giunta. Se l’assenza di etica nei suoi intenti appare chiara meno scontata è la sua efficacia economica. Nonostante le indubbie, ma mai comprovate empiricamente, potenzialità persuasive della comunicazione ascendente non si possono ignorare i suoi seri limiti. Si tratta infatti di uno stile comunicativo datato, nato assieme alla stessa comunicazione di massa, e che oggi mal si adatta alla superiore facilità nella ricerca di concrete informazioni di consumo. Inoltre, dopo decenni di promesse sconsiderate, il magico incanto dell’advertising è ormai stato svelato, le tensioni ascendenti non fanno altro che incrementare la sfiducia dei consumatori nella pubblicità. In ultimo sta venendo meno lo scopo per cui questo modello si è imposto e cioè far emergere il prodotto sul resto, donargli un’aura sublime in grado di coprire la sua banalità. Oggi con il ricorso alla comunicazione ascendente si rischia di fare l’opposto, di aderire allo stile comunicativo più diffuso e dunque più banale. Il prodotto stesso rischia di diventare, agli occhi dei consumatori, uno come tanti, uno di quelli che promette la felicità assoluta.

 

G. Fratini è autore del volume “Pubblicità (in)sostenibile. Dall’inquinamento mentale ai modelli futuri dell’advertising”, 2021

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