Territori in transizione dopo le tre crisi. Obiettivi e risultati del Convegno di Pavia

di Gioacchino Garofoli

Professore Ordinario di Politica Economica all’Università dell’Insubria e Alumno ISTAO 1970-1971

1. Introduzione

Il Convegno di Pavia (30 nov. – 1° dic. 2023) aveva almeno tre obiettivi che erano progressivamente emersi dalle discussioni a distanza e dai messaggi scambiati con i colleghi invitati a partecipare ad un confronto sistematico e al Convegno di chiusura almeno della fase iniziale di un progetto di riflessione comune avviato, dopo le tre crisi economiche, da una rete internazionale (AENL) sufficientemente estesa di economisti e studiosi delle scienze sociali che discute e si incontra con sistematicità.

Il primo obiettivo era quello di farsi carico di un confronto con gli operatori economico-sociali ed istituzionali sia per evitare che gli studiosi si chiudano nelle loro “torri d’avorio” perché è necessario un confronto pubblico specie in una fase di crisi economica perdurante e di modificazione del quadro economico e sociale ma probabilmente anche istituzionale. Siamo di fronte ad un periodo di intense trasformazioni che richiede uno sforzo aggiuntivo per la comprensione dei nuovi fenomeni e che rende necessaria la costruzione di una interpretazione quanto più condivisa e che può generarsi solo con un confronto e un dibattito con le istituzioni, con i portatori di interessi e con la società civile.

Gli economisti e gli scienziati sociali debbono, dunque, aprirsi all’esterno e discutere le loro idee e proposte con i policy maker e con gli stakeholder. Nel nostro paese non esiste una tradizione di confronto sistematico di questa natura a livello nazionale, come avviene invece in altri paesi, come ad esempio in Francia ove esistono specifiche istituzioni (cfr. Société d’Encouragement de l’Industrie Nationale) che garantiscono da oltre due secoli il confronto sistematico di questa natura. Ma nel nostro paese vi è stata una lunga tradizione di discussione e confronto pubblico, molto utilizzata e particolarmente efficace negli anni ’70,’80 e ’90, nell’epoca dell’attenzione al modello economico italiano fortemente centrato sulla piccola e media dimensione di impresa e su sistemi produttivi territoriali fortemente integrati, innovativi e competitivi.

Credo che proprio dai territori si possa ripartire sia per ricostruire il senso di appartenenza ad una comunità territoriale di imprese, organizzazioni e persone che si facciano carico di tenere coesa la struttura sociale per garantire resilienza e capacità di reazione alle sfide ma anche alle opportunità che si manifestano continuamente e che non sempre possono essere previste senza una adeguata organizzazione. Una società disintegrata e “slabbrata” non può trovare risposte adeguate e si trova “spaesata” di fronte ai cambiamenti che provengono dall’esterno. Per questo motivo, molti territori in Italia e all’estero si sono trovati inermi e “disarmati” di fronte a crisi (di imprese e di mercati) che non si riusciva a comprendere se non alla fine del processo quando i risultati negativi (chiusura di imprese, perdita di occupazione, caduta del reddito e della domanda interna nei territori che portava ad ulteriori chiusure dei negozi di prossimità, innescando una catena di meccanismi di “inviluppo”) diventavano immediatamente comprensibili a tutti ma quando ormai era troppo tardi e innescando anche depressione psico-sociale che mina ulteriormente la fiducia nel futuro.

Ma una attenta analisi comparata sui territori insegna molto perché la differenziazione dei modelli economico-sociali e di comportamento degli attori pubblici e privati è talmente ampia da consentire di trovare segnali di reazioni e strategie, oltre che utilizzo di strumenti efficaci di intervento che spiegano il ruolo dei fattori endogeni allo sviluppo e della responsabilità degli attori economico-sociali nell’interpretare i processi di trasformazione e creare le condizioni per rendere più pronti e reattive le comunità territoriali.

In questi ultimi tempi diversi territori hanno cominciato ad interrogarsi nuovamente sulle trasformazioni in atto e sui possibili cambiamenti futuri, attrezzandosi dal punto di vista dell’attenzione e della mobilitazione degli attori socio-economici. La nostra idea è stata quello di mettere questi territori in rete per consentire la comparazione tra le diverse aree e per favorire forme di apprendimento collettivo per innescare idee, forze ed energie per progettare “dal basso” lo sviluppo territoriale. Ciò significa riprendere l’autonomia dei territori a partire dai loro problemi e dalla individuazione degli obiettivi compatibili con le competenze e le risorse dei territori e sollecitando la collaborazione dei livelli di governo sovraordinato. Ciò dovrebbe ricomporre la filiera istituzionale in modo efficace per giungere ad una sorta di co-progettazione tra il livello territoriale con quello almeno regionale e nazionale, come avviene in altri paesi europei.

Il secondo obiettivo era, dunque, quello di mettere in rete diversi territori in Italia e all’estero per riflettere sulle sfide e le opportunità che si presentano per la costruzione del futuro con progetti “dal basso” con il coinvolgimento degli attori socio-economici locali e con la partecipazione diffusa dei cittadini. Un primo gruppo di territori hanno già iniziato a confrontarsi con l’avvio di un ciclo di seminari organizzati in forma ibrida (in presenza e online) sui diversi territori. Lo scopo è quello di apprendere gli uni dagli altri e collaborare assieme per diffondere idee, proposte e modalità operative di successo per affrontare i problemi esistenti (non esiste, infatti, competizione tra territori e comunità locali), spingendo verso una logica di co-progettazione con i livelli di governo sovra-ordinato.

Il terzo obiettivo era quello di giungere ad un documento degli economisti (e degli scienziati sociali) europei a favore degli investimenti e della creazione di lavoro di qualità in Europa, basandosi prioritariamente sulla domanda interna europea anziché sulla competizione tra paesi (spesso tra paesi europei …), evitando la competizione sui prezzi e l’utilizzo di lavoro povero. Un tale documento dovrebbe spingere all’utilizzo di politiche economiche alternative in Europa, frenando da un lato, il tentativo di tornare al patto di stabilità e alle politiche deflazionistiche e, dall’altro, ad una attenta riflessione analitica e politica sui rapporti ambigui tra finanza e produzione o, in altri termini tra risparmio dei cittadini europei e finanziamento degli investimenti produttivi in Europa.

Ora presenterò in forma sintetica, spesso “telegrafica”, i contributi e il dibattito nelle tre sessioni del Convegno di Pavia, con alcuni risultati in termini di interpretazione condivisa e di proposte possibili. Vorrei solo sottolineare una caratteristica metodologica non comune utilizzata nell’organizzazione dei temi delle tre sessioni, partendo dalle questioni del territorio (e dei rapporti tra territori e livello regionale e nazionale), per passare alle relazioni tra opportunità di sviluppo territoriale e gli schemi e piani a livello nazionale ed europeo, per giungere infine alle relazioni tra le politiche europee e il quadro economico internazionale; vale a dire riflettendo sulle diverse scale dei processi economici, sociali e istituzionali.

2. Territori in transizione: alcune buone pratiche
  1. I territori in difficoltà e in crisi senza alcuna percezione dei rischi e degli scenari possibili.
  2. Difficoltà a conservare “memoria storica” nei luoghi che hanno maturato esperienze considerevoli nei decenni passati.
  3. Difficoltà a fare comparazione con altre aree. Se non siamo capaci di leggere i nostri territori in relazione ad altri non potremo avere capacità strategiche (d’altronde, è così anche per le imprese).
  4. Obiettivi della sessione: a) comparazione tra le aree; capacità di leggere opportunità e di scoprire “risorse nascoste”; b) organizzare cooperazione tra territori (non esiste competizione tra territori …); c) capire le differenze nelle logiche istituzionali e delle esperienze di governance in altri paesi; d) lo spostamento dell’attenzione dalla competitività territoriale alla valorizzazione delle risorse del territorio (o valorizzazione territoriale e radicamento territoriale dei processi di sviluppo e trasformazione).
  5. Capire le reazioni dei territori rispetto alle sfide comuni e generali: a) economia circolare; b) ESG e attenzione a obiettivi green e sostenibili; c) innovazione e cambiamento; d) il quadro internazionale e l’effetto su questioni di costi comparati e di mercati alternativi; e) i rischi del cambiamento climatico (ad esempio sull’agro-industria).
  6. Le difficoltà dello stato locale e le opportunità del NGEU.
  7. Sono stati presentati due paper teorici; un paper ha spiegato l’articolazione della filiera istituzionale a supporto dello sviluppo territoriale e la co-progettazione (il caso francese); in altri paper si è sottolineato l’emergere di nuove tipologie di aree (le città culturali; lo sviluppo ecopolitano che si aggiunge allo sviluppo agropolitano; …) e si è sostenuta la necessità di ripensare ad alcune categorie interpretative e di strumentazioni di intervento (il superamento della dicotomia città-campagna; l’integrazione territoriale che supera il concetto di aree omogenee; rigenerazione territoriale vs rigenerazione urbana).
  8. L’opposizione tra approccio territoriale (in un quadro di insieme) e l’approccio settoriale e per problemi specifici; da cui pianificazione strategica (e responsabilità degli attori) vs finanziamenti “a pioggia” e deresponsabilizzazione.
  9. Le città creative (le città creative Unesco; Matera come laboratorio per il Mezzogiorno); infrastrutture e funzioni urbane; le città di frontiera e l’innovazione delle aree transfrontaliere (cfr. la “città dei laghi”).
  10. Innovazione e cambiamento; le novità vengono sempre dalle aree centrali? L’innovazione sociale nelle periferie e nelle aree già marginalizzate; la riscoperta dell’identità territoriale e delle comunità; le buone pratiche nelle aree di montagna: la cooperazione e il coordinamento tra comuni per affrontare alla scala opportuna e risolvere i problemi strutturali (sanità, educazione, servizi di base) e attirando nuovi residenti e nuove imprese; il ruolo dei casi di successo e delle buone pratiche per accrescere la fiducia tra gli operatori economico-sociali e i cittadini e promuovere progettualità, partecipazione ed impegno.
  11. Il ruolo della comunità: i luoghi di incontro, di discussione, di relazioni sociali: la comunità che vive e non sommatoria di individui isolati.
  12. I ritardi culturali in Italia sulla questione: la debolezza dei rapporti economici e dei documenti pubblici; incapacità delle istituzioni specifiche deputate alla programmazione e alla gestione della questione (a partire dall’agenzia di coesione territoriale); l’assenza della co-progettazione lungo la filiera istituzionale della PA).

 

3. NGEU, PNRR e sviluppo territoriale: una comparazione internazionale
  1. La capacità di organizzare politiche industriali e riorganizzazione produttiva in alcune filiere produttive in Irlanda (industria farmaceutica) e in Spagna (agro-industria).
  2. La realizzazione di ingenti investimenti sui territori e la produzione di nuove coerenti competenze professionali: alcuni casi esemplari.
  3. La capacità di organizzare partenariato pubblico-privato in paesi con tradizione ed esperienza di un paio di decenni per investimenti territorialmente concentrati (poli di competitività e aree di agglomerazione industriale) per ricerca e innovazione in settori strategici: le buone pratiche in Francia e in Spagna.
  4. La capacità di utilizzazione del PNRR nazionale a livello regionale e di perseguire gli obiettivi della sostenibilità nelle regioni che da decenni si erano già indirizzate in quella direzione, creando un ambiente favorevole ad investimenti coordinati, alla cooperazione e al partenariato pubblico-privato; l’esperienza delle Isole Baleari nello sviluppo sostenibile e dei progetti strategici per la ristrutturazione e la trasformazione economica (PERTE) nell’agro-industria nelle regioni spagnole.
  5. La questione dei prezzi relativi e le difficoltà di aumento della domanda interna per il mancato coordinamento tra investimenti pubblici e privati (cfr. la mancata coerenza tra dinamica della domanda di lavoro per gli investimenti privati (specie delle Multinazionali) e insufficiente offerta di abitazioni e adeguati servizi pubblici (per favorire la mobilità interregionale del lavoro): il caso irlandese.
  6. La rilevanza di una ricerca internazionale sulle filiere agro-industriali nei paesi del Mediterraneo di fronte ai rischi del cambiamento climatico.
  7. Le difficoltà ad accedere ai servizi essenziali per i cittadini in molti territori e regioni.
  8. I rischi di una politica di spesa pubblica parcellizzata per settori e per municipi (con presunto obiettivo di redistribuzione delle risorse e con distribuzione “a pioggia” dei finanziamenti) in opposizione a finanziamenti di progetti ampi e costruttivi di un percorso di sviluppo a scala di area vasta che soli garantiscono autonomia e programmazione di medio-lungo periodo (come avviene per tutti i progetti di sviluppo).
  9. Le esperienze di coordinamento e co-progettazione lungo la filiera istituzionale: la necessità di nuove competenze professionali nell’amministrazione pubblica per la gestione dei processi di sviluppo territoriale e la necessità dell’accompagnamento da parte dei livelli di governo sovra-ordinato.
  10. Le relazioni tra il NGEU e le proposte del Piano Delors; il ruolo cruciale degli investimenti e della buona occupazione per la governance dei processi di trasformazione economica e sociale.

 

4. Politica industriale di sviluppo in Europa nel nuovo quadro internazionale
  1. Il nuovo quadro internazionale in cui va collocato il dibattito sul futuro dell’Europa e della sua politica industriale e di sviluppo. L’emergere dei nuovi paesi industriali e le nuove relazioni tra produzione industriale e approvvigionamento di materie prime ed energia. La modificazione in atto del potere economico della produzione e del potere (e delle regole) delle istituzioni internazionali (economiche e non economiche). Il ruolo del dollaro come moneta internazionale in questa fase di grande trasformazione. Le possibilità per il riconoscimento di altre monete internazionali (specie per i Brics).
  2. La deindustrializzazione precoce nei paesi dell’America latina e il progressivo ritorno a produzioni del settore primario che modifica strutturalmente il processo di scambio di merci Sud-Sud e una particolare (e interessante) forma di cooperazione internazionale.
  3. Si sta, dunque, riproponendo un problema di ristrutturazione economica e di innovazione nel settore industriale che coinvolge non solo il “vecchio “ mondo occidentale ma anche parte rilevante del mondo in via di industrializzazione. Ciò pone dei problemi di autonomia strategica per grandi aree e regioni economiche del mondo (a partire dall’Unione Europea) che sollevano, a loro volta, questioni di politica economica e di approccio teorico-analitico completamente diverse rispetto a quelle del passato. In particolare, ripropone questioni cruciali relative al modello sociale europeo e alla questione delle relazioni finanza – industria o finanza -produzione di fronte alle quali abbiamo un approccio tradizionale completamente invecchiato e assolutamente distante dalle esigenze dei cittadini e dei risparmiatori europei, oltre che della ristrutturazione del sistema economico europeo.
  4. In questo contesto in cambiamento si sono posti gli specifici “paper” che hanno presentato e discusso le alternative politiche industriali e di sviluppo in Europa, prioritariamente orientate al soddisfacimento della domanda interna (investimenti nella produzione di beni e servizi per consumi privati e spesa pubblica europea), non solo per esigenza di benessere collettivo e della qualità della vita ma perché le esportazioni al di fuori della Unione Europea riguardano soltanto il 10% della produzione complessiva europea (come tra l’altro avviene in tutti i grandi paesi come gli USA).
  5. Le nuove politiche vanno trasformate attraverso opportuni strumenti e capacità di coordinamento (a livello europeo, nazionale e regionale) in una nuova strategia industriale e del lavoro in Europa. La questione non è solo legata all’innovazione tecnologica ma anche alle competenze professionali necessarie non solo per le applicazioni e la gestione delle tecnologie ma anche per la governance dei processi e del partenariato pubblico-privato.
  6. Le nuove politiche industriali europee possono essere declinate per settori e filiere strategiche, specifici e cruciali per il futuro dell’Europa, anche nel settore automotive e non solo nel settore delle energie rinnovabili. È necessario un dibattito pubblico su questi temi che è punto dirimente di coordinamento (europeo e nazionale) per un efficace partenariato pubblico-privato.
  7. Nella politica industriale e dello sviluppo in Europa la centralità degli investimenti è indiscussa. Gli investimenti sono lo strumento fondamentale per garantire l’aumento di occupazione di qualità, in un’Europa che, in molti paesi e regioni, mostra ancora tassi di occupazione (specie femminile) troppo bassi. L’Europa non può sopravvivere con il lavoro povero e con tassi di investimenti (sul prodotto interno) inferiori al 20%. I cittadini europei hanno bisogno di beni e servizi di qualità che non possono che essere prodotti da lavoro di qualità.
  8. La domanda cruciale che dobbiamo porci tutti è la seguente: a che serve aumentare la produttività del lavoro? L’aumento della produttività del lavoro è necessaria per aumentare i salari e gli stipendi, per finanziare gli investimenti delle imprese e del sistema produttivo nel suo complesso (così da garantire sostenibilità e durabilità nel tempo delle imprese e del sistema economico) e per finanziare investimenti in costruzioni di qualità (“belle fabbriche” per lavoro in condizioni di sicurezza) e beni collettivi. Detto in altri termini, l’aumento di produzione potenziale deve tradursi in aumento di salari, occupazione, servizi pubblici e beni pubblici (commons), in aumento dunque del benessere collettivo.
  9. Queste considerazioni mostrano la rilevanza degli investimenti come strumento fondamentale contro la deflazione economica (d’altronde, il modello cinese successivo alla crisi economica internazionale del 2008 si è fortemente indirizzato ancor più agli investimenti per accrescere la domanda interna) e l’inconsistenza teorica e analitica del patto di stabilità che è, invece, rientrato dalla “finestra” dei palazzi di Bruxelles.
  10. Alcune questioni che sono sottintese a quanto precedentemente richiamato potrebbero far pensare al tema degli ESG e dei nuovi vincoli formali e burocratici che tale impostazione sta ponendo (ma dall’alto e, talvolta, dal mondo della finanza) nella valutazione degli investimenti potenziali da finanziare. Occorre, invece, avere un approccio generale più teorico-analitico che faccia comprendere le sfide e le opportunità per un’Europa strategicamente autonoma, basata su un welfare europeo e un modello sociale, come a lungo veniva sottolineato nei documenti europei.

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