La questione energetica
di Gioacchino Garofoli
Professore Ordinario di Politica Economica all’Università dell’Insubria e Alumno ISTAO 1970-1971
Affronterò la questione della crisi energetica, in Italia e in Europa, sottolineando alcune questioni strutturali dell’economia europea e i gravi errori di politica economica e di politica industriale commessi negli ultimi 15-20 anni.
La questione dell’autonomia europea in campo energetico è stata evidente sin dagli anni Settanta con l’esplodere della crisi petrolifera che ha messo fine all’approvvigionamento a basso costo dai paesi produttori di petrolio. La questione è stata parzialmente sottaciuta perché alcuni paesi (soprattutto Regno Unito e Norvegia e, parzialmente, Olanda) hanno scoperto, prima della fine del decennio, i ricchi giacimenti di petrolio e gas del Mare del Nord e per la relativa autonomia per la produzione energetica in Francia con la produzione del nucleare. La differenziazione della questione e degli interessi tra paesi europei ha evitato di affrontare strutturalmente la questione in una dimensione federale.
Il problema dei grandi investimenti europei nelle infrastrutture di rete (compresa quindi anche quelle per l’approvvigionamento e la distribuzione dell’energia) era molto chiaro nei primi anni Novanta come obiettivo di politica economica per contrastare il rischio di crisi economica a seguito delle scelte di austerity che il rispetto del Trattato di Maastricht avrebbe determinato. Non è un caso che il gruppo di economisti attorno a Jacques Delors (allora Presidente dell’Unione Europea) avesse identificato i grandi investimenti europei come la chiave di volta per la ristrutturazione dell’economia. Ma la politica europea, frenata da meccanismi istituzionali che privilegiavano gli interessi nazionali (e lo status quo) rispetto a quelli europei, non ha accettato e realizzato la proposta di Delors, che è restata una dichiarazione di principio in un “Libro Bianco” pubblicato nel 1993.
L’urgenza di grandi investimenti infrastrutturali per la ristrutturazione e il rilancio dell’economia europea è divenuta particolarmente pressante negli anni della crisi del 2007-08 e in quelli successivi; ma è restato argomento per alcuni gruppi e reti di economisti e scienziati sociali e non è mai entrata nell’agenda dei governi nazionali e dell’Unione europea sino al Green Deal europeo del dicembre 2019 e al successivo NGEU. In altri termini, le politiche economiche dell’austerity hanno continuato ad impedire un cammino di trasformazione dell’economia europea in direzione di elevati investimenti e di creazione di nuovi posti di lavoro.
La persistenza imbarazzante di una visione miope e antifederalista ha impedito di perseguire una strategia coerente ed efficace nei riguardi dell’autonomia energetica europea. Ricordo che il Commissario europeo all’Energia, Günther Oettinger, ancora nel 2014 (in un convegno a Milano) aveva orgogliosamente sottolineato la rilevanza del potere contrattuale dell’Europa unita nel fissare il prezzo del gas russo anziché preoccuparsi di costruire l’autonomia energetica europea.
Ciò nonostante alcuni paesi hanno fatto da soli passi rilevanti. L’economia tedesca ha molto investito, negli ultimi 20 anni nelle fonti energetiche alternative e rinnovabili (nell’eolico e nel solare); la Danimarca ha fatto molto, essendo state danesi le prime imprese ad introdurre la tecnologia dell’eolico, tanto da aver ridotto la dipendenza energetica al 23,7% contro una media UE del 58,2% e un valore per l’Italia pari al 76%. Ma questa doveva essere la direzione di una strategia e una politica energetica europea, assieme alla possibilità di utilizzare in modo efficace sia l’energia geotermica che quella proveniente dal moto ondoso. Queste opportunità tecnologiche erano già evidenti negli anni ’90 e un investimento massiccio e anticipato a livello europeo avrebbe garantito risultati ancora più rilevanti dal punto di vista degli avanzamenti tecnologici e innovativi che rappresentano fenomeni cumulativi.
In assenza di adeguati e cospicui investimenti l’Europa è rimasta scoperta e indifesa alle prime avvisaglie della nuova crisi energetica. Non è possibile addebitare ora tutte le cause e le “colpe” a fattori esogeni anziché all’insipienza della politica industriale europea e all’indifferenza della gran parte dei politici nazionali ed europei.
Vengo ora alla seconda questione, data dall’escalation dei prezzi dei prodotti energetici che ancora una volta è da addebitare all’incapacità previsiva della politica e alla mancata capacità di controllo dello Stato (e delle sue istituzioni) sui processi di fissazione dei prezzi su beni e servizi pubblici.
Di fronte allo shock dei prezzi energetici ci sono vari strumenti di difesa specie nei settori dei servizi pubblici essenziali e che dovrebbero garantire l’utente-cittadino contro l’oscillazione dei prezzi di breve periodo e che dovrebbero essere bilanciati dalle ampie riserve che i paesi europei dovrebbero accumulare nei periodi di regolare produzione. Inoltre il prezzo di erogazione dell’elettricità non può essere legato sistematicamente al prezzo del gas anche perché vi sono fonti alternative che non hanno fatto registrare impennate nei costi di produzione. Inoltre l’imposizione fiscale indiretta (come Iva e accise) dovrebbe essere applicata in senso anticiclico rispetto all’andamento dei prezzi, introducendo una riduzione dell’imposta all’aumentare dei prezzi anche per evitare il propagarsi dell’inflazione lungo la catena produttiva.
Infine, in settori essenziali per il servizio pubblico con un mercato relativamente protetto e fortemente regolato da agenzie di controllo, da un lato, e con una prevalenza di imprese a controllo pubblico, dall’altro, sembra paradossale dover assistere all’incredibile aumento dei prezzi praticati agli utenti. Le imprese che operano nel settore sono, soprattutto, Eni, Enel e alcune ex-aziende Municipalizzate (ora trasformate, attraverso progressive fusioni, in grandi imprese) ma ancora con una rilevante e condizionante proprietà pubblica. Possono esse comportarsi come elementi di diffusione e propagazione delle manovre speculative che sono state fortemente lanciate dalla fine dei febbraio da alcune grandi società di paesi occidentali e appoggiate da fondi speculativi? Le istituzioni pubbliche e la politica non hanno nulla da dire?