2021: all’Italia serve una visione per rinascere

di Michele Pallini

Marketing Manager Rivacold e Alumno ISTAO 2002

Il 2020, un anno tremendo dal punto di vista sanitario ed economico, si è chiuso con due grandi opportunità per un rapido miglioramento delle condizioni di vita nel nostro Paese: l’arrivo del vaccino anti-covid e l’approvazione a livello europeo del Recovery Fund. Se una gestione efficiente della vaccinazione di massa può garantire il superamento della fase pandemica e l’alleggerimento della pressione sulle strutture ospedaliere (oltre ad interrompere la catena di lutti che ha unito la prima e la seconda ondata del virus), una seria pianificazione del Recovery Fund può gettare le basi per una vera e propria rinascita dell’Italia. La crisi sanitaria e quella economica hanno mostrato, del resto, un altro evidente parallelismo, andando entrambe a colpire maggiormente quegli organismi già provati da età o patologie pregresse: il modello di sviluppo economico italiano aveva già mostrato lacune e debolezze che richiedono un vero e proprio cambio di passo, più che una semplice correzione, non più derogabile. Sperare che la semplice immissione di cospicue risorse monetarie (circa 209 miliardi di euro, di cui, peraltro, 127 sotto forma di prestiti) possa risolvere tutto a un tratto criticità infrastrutturali che si trascinano da decenni è proprio il primo errore da compiere se si vuole fallire. Allo stato attuale il nostro Paese è come un acquedotto con molte falle: aumentare la portata dell’acqua significherebbe farne crescere anche le perdite. Solo una piccola parte di quanto versato in più a monte finirebbe per arrivare a valle. Il dibattito politico sulla gestione di questo fondo europeo sembra purtroppo ancora bloccato su vari aspetti del processo decisionale (cabine di regia, procedure straordinarie ecc). Le stesse recenti schermaglie sui contenuti della proposta da sottoporre all’Europa sembrano mirate, più che altro, ad alimentare diatribe interne a partiti o correnti. La bozza presentata dal Governo nelle scorse settimane, oltre a citare quali campi di intervento – inevitabili e peraltro in parte obbligati dalla Commissione Europea – la digitalizzazione, le infrastrutture per la mobilità, la rivoluzione verde, l’inclusione di genere sociale e territoriale, la salute, l’istruzione e la ricerca, non analizza e approfondisce a sufficienza le vere questioni sul tavolo. La valanga di progetti da finanziare raccolti dai Ministeri rafforza, infine, l’opinione di essere ancora in fase di acquisizione e sondaggio di elementi utili per la formulazione di una proposta, più che di una pianificazione reale. Il tempo comunque c’è, visto che l’Italia deve presentare in Europa il suo progetto finale entro la prossima primavera. La vera spada di Damocle che pende sulla testa di questa unica occasione di rilancio è, però, che questo ragguardevole asteroide di denaro in viaggio verso il nostro Paese, attraversando l’atmosfera della nostra dialettica politica, si frantumi in microscopici ed innocui frammenti e disperda la sua forza d’impatto e trasformazione. Quello su cui ci si dovrebbe interrogare, in prima battuta, non è né come né su cosa spendere questi soldi, ma perché. Quale visione deve dettare la ripartizione di queste risorse? Quali gap con i Paesi più avanzati dobbiamo colmare? In un mondo ideale questo tipo di discussione, oltre a toccare le sedi istituzionali più sensibili alle richieste delle lobbies economiche, dovrebbe essere allargato anche a soggetti privi di interesse che possano contribuire a plasmare il Next Generation EU – nome molto più incisivo, nella forma e nella sostanza, per questo programma, rispetto al semplice concetto di recupero. Mi riferisco innanzitutto alle Università, ai centri Studi e agli Istituti, come l’Istao, che hanno in modo obiettivo il polso della situazione socio-economica e il quadro completo delle esigenze delle imprese. Queste risorse vanno destinate in modo inequivocabile a investimenti mirati ad aumentare la produttività e l’efficienza del sistema Paese. Utilizzarle come sussidi o per diminuire la pressione fiscale non solo non è consentito dalle norme europee ma sarebbe controproducente, visto che poi gran parte di queste somme andrà comunque rimborsato. Di quale piano straordinario hanno bisogno tutte le nostre aziende per tornare ad essere competitive? Voglio citare tre temi a mio parere prioritari, solo a titolo esemplificativo, secondo queste linee guida: gli investimenti devono avere un’incidenza diretta su una vasta platea di soggetti, oltre che positiva sull’ambiente; devono fungere da leva sulla profittabilità; devono costituire un incentivo all’occupazione sul lungo periodo. Alla luce di queste considerazioni, spero vengano valutate la fattibilità e la rilevanza di:

  1. Un piano nazionale sull’energia rinnovabile, con l’obiettivo non solo di ridurre drasticamente le emissioni di Co2, ma di contenere il costo dell’energia elettrica, attualmente più cara in Italia che nel resto d’Europa – oltre che non propriamente pulita, visto che più del 40% del nostro fabbisogno viene coperto da centrali termoelettriche alimentate a gas naturale o carbone.
  2. Un progetto di formazione professionale di “cerniera” tra l’istruzione secondaria e il mondo del lavoro, con particolare riferimento ai nuovi profili specializzati necessari al mondo del lavoro in ambito digitale e IOT.
  3. Una semplificazione burocratica e fiscale che, avvalendosi di innovativi strumenti tecnologici, agevoli la crescita delle imprese e di tutte le attività imprenditoriali.

Aggiungo che il taglio del costo del lavoro e il piano Industria 4.0 sono meritevoli di continuazione, così come pure, anche da un punto di vista legislativo, l’accesso allo smart working potrebbe generare delle conseguenze positive a livello economico e sociale, per esempio andando a ridurre le differenze tra città e periferia, costa e zone montane, nord e sud.

Ovviamente questo non significa che non possano esistere altri temi, altrettanto importanti, da portare avanti, ma questi possono essere individuati e definiti solo attraverso il coinvolgimento di tutti gli stakeholder pubblici e privati e, soprattutto, con la volontà di scegliere una strategia precisa, non semplicemente di regolare i conti all’interno di una coalizione partitica.

Stiamo vivendo un momento cruciale che deve essere approcciato con un rigore scientifico e la più grande lungimiranza. Le decisioni che verranno prese segneranno i prossimi 30, 40 anni del nostro Paese. Riuscire ad accontentare il maggior numero di soggetti possibile, con bonus a pioggia, potrebbe sicuramente garantire un futuro all’attuale classe politica italiana, indipendentemente da chi verrà chiamato a governare il Paese, ma rischia di distruggere la prossima generazione di cittadini italiani.

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