Previsioni economiche:
la ripresa del gigante cinese

di Gianluca Sampaolo

Docente di “Economia della Cina” all’Istituto Confucio dell’Università di Macerata

Gli operatori stranieri dovrebbero valutare con un rinnovato interesse le opportunità di investimento in Cina. Le ultime previsioni economiche della Banca mondiale per la regione Asia-Pacifico, segnalano un tasso di crescita del 2% per il 2020 e del 7,9% per il 2021, in netto contrasto con la contrazione prevista nelle economie dei paesi confinanti il “Regno di Mezzo” e con le stime per le economie industrializzate. La Cina, nonostante un limitato volume dei consumi interni, crescerà nel 2020 grazie ad un sostegno notevole della spesa pubblica, all’incremento delle esportazioni e grazie anche ad un basso tasso di nuove infezioni da COVID-19 da marzo.  Per il resto della regione Asia-Pacifico si prevede, invece, una contrazione del 3,5%, a fronte di un irrisorio tasso di crescita dello 0.9%, il più lento dal 1967. Le ragioni di tale rallentamento sono certamente attribuibili allo shock causato dalla pandemia, alle ripercussioni economiche a seguito dei numerosi lockdown e alla conseguente recessione globale.

Prima dello scoppio della pandemia, quando la crescita economica della Cina mostrava un rallentamento in concomitanza con la programmata transizione cinese verso “il new normal”,[1] alcune aree del Sud-est asiatico assumevano prontamente il ruolo centrale e strategico di potenze manifatturiere con manodopera a basso costo. In sostanza, si stava affermando in queste aree lo stesso modello di sviluppo che aveva contraddistinto le fondamenta del cosiddetto “miracolo economico” cinese a partire dagli anni ’80 e ’90,  con l’esportazione di prodotti favorita dal basso costo del lavoro. Se analizziamo inoltre le dinamiche che nell’era COVID-19 hanno impattato sulle catene globali del valore, con la maggior parte delle economie in lockdown (totale o parziale) e con la contrazione del commercio globale, stimata tra il 13% e il 32% dalla WTO, e degli investimenti, stimata tra il 30% e il 40% dall’UNCTAD,  la maggior parte degli analisti concorda sul fatto che l’attuale pandemia abbia incoraggiato da un lato il fenomeno del cosiddetto reshoring e dall’altro, la delocalizzazione di molti stabilimenti produttivi, a cui Pechino ha dovuto far fronte. Si è infatti assistito ad un trend sempre crescente di investitori stranieri, in gran parte aziende di approvvigionamento e di produttori che hanno cercato mercati alternativi da cui esportare, colpiti sia dai dazi scaturiti dalla guerra commerciale USA-Cina, sia dalla pandemia che ha alimentato un clima di ostilità nei confronti del gigante cinese. Da questa prospettiva, se sommiamo i dazi più la pandemia, la delocalizzazione è una logica che ha perfettamente senso.

Ma, stante le previsioni di crescita economica e l’espansione della fetta dei consumatori della classe media, ha senso anche che le imprese considerino le nuove opportunità di crescita e investimento che la Cina post-COVID-19 può offrire. La resilienza e la capacità di reazione mostrate, rappresentano caratteristiche intrinseche e uniche di un popolo e di una nazione dapprima criticati, ma alla quale oggi le economie più industrializzate, in Occidente soprattutto, guardano con occhi di chi la pandemia ancora non riesce a contenerla, con inevitabili conseguenze negative sulle rispettive economie e sui meccanismi della globalizzazione. Non ultimo, il fatto che in risposta all’emergenza COVID-19, le Autorità cinesi abbiano adottato una serie di misure – di natura finanziaria, amministrativa, fiscale, di accesso al credito, doganali, relative all’e-commerce, di agevolazione degli oneri sociali e previdenziali e dell’attività lavorativa – [2]  per sostenere l’economia nazionale e l’attività delle aziende basate in Cina, siano esse cinesi o straniere, rafforza l’idea che la Cina voglia affermarsi non solo come un mercato di sbocco ma anche come un mercato in cui produrre e da cui esportare.

Altro fattore da tenere in considerazione è legato al rinnovamento delle linee guida della politica economica di Pechino, la cosiddetta “dual circulation strategy” (DCS), annunciata per la prima volta da Xi Jinping lo scorso maggio. La “doppia circolazione” è da intendersi come un meccanismo di integrazione tra la circolazione economica domestica e quella internazionale. La domanda globale (circolazione esterna) e i consumi domestici (la circolazione interna) vengono messi in stretta correlazione. All’atto pratico, un’economia da una parte basata su un sistema export-driven, dipendente quindi dalla domanda globale, e dall’altra su un peso maggiore affidato alla domanda interna. Allo stato attuale, considerate le incertezze e l’instabilità dello scenario internazionale dovute al COVID-19 e alla guerra commerciale, è legittimo attribuire alla circolazione interna un asset chiaramente strategico.

In quest’ottica, le opportunità di investimento e business in previsione di una maggiore domanda interna dei consumatori cinesi rappresentano elementi critici che imprenditori e investitori stranieri non devono sottovalutare.


[1] Con “new normal” – letteralmente “nuova normalità” – si intende il nuovo modello di sviluppo cinese promosso per la prima volta da Xi Jinping nel maggio 2014. Il “new normal” incarna un focus sui cambiamenti strutturali del sistema economico cinese e descrive un modello di crescita ancora marcato ma inferiore (circa il 7% all’anno nei successivi cinque anni) e incentrato sulla qualità (rispetto alla quantità), sia in termini di distribuzione sociale che di impatto ambientale. In sostanza, la “nuova normalità” cinese è intesa dalla leadership e dall’élite politica cinese come una crescita in termini qualitativi con un’attenzione particolare su quattro aspetti principali: servizi, innovazione, ridotta disuguaglianza sociale e sostenibilità ambientale.

[2] Per una consultazione approfondita delle misure adottate, si rimanda al sito dell’ICE nel link riportato in fondo all’articolo.

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